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Facchetti jr: “Mio figlio non vedrà i Mondiali. Inter e Italia i due amori di papà”
Intervistato da Gazzetta.it, Gianfelice figlio della bandiera dell'Inter Giacinto Facchetti ha parlato della delusione dopo la mancata qualificazione dell'Italia ai Mondiali:
Privazione di ricordi, emozioni collettive, condivisioni di famiglia...
“Certo. Per mio figlio un po’ lo è anche di riaggancio col passato oltre a uno spunto per condividere il presente. Non avendo conosciuto mio padre - è mancato prima che nascesse - ogni tanto saltano fuori fotogrammi e filmati e lui li vive così. Un altro timore è che due mondiali saltati allontanino ancora di più dal calcio i bambini. Il pallone è una promessa di vissuto e condivisione ma allo stesso tempo anche la promessa di un sogno che ti cattura, che hai voglia di emulare. Già il calcio ultimamente ha, diciamo, è un po’ malato in e va ripensato. Ma se ne parla solo quando succede una cosa clamorosa come questa. Poi ci si dimentica. Ma la situazione avvicina magari ad altri sport. Già oggi è difficile perché o sei nell’agonismo o non è più così facile giocare. Inoltre non c’è più il fenomeno che attira. La sconfitta ha anche questi risvolti, dalla mancanza dell’atmosfera più intima alla (non) popolarità”.
Qual è il suo ricordo più vivido di bambino di un Mondiale?
“Quello dell’82, avevo 8 anni: è stato bellissimo. Andavamo in vacanza in Sardegna e c’era una colonia di tedeschi. Abbiamo visto la finale tutti insieme, con papà e i tedeschi, e alla fine bagno vestiti in piscina. Noi italiani eh, i tedeschi mogi in camera”.
Giacinto fu protagonista della partita del secolo: Italia-Germania 4-3 descritto in film, racconti, opere. Cos’è per lei?
“L’ho vissuta coi racconti postumi di tante persone. Appena mancato papà mi capitò di incontrare Beckenbauer e mi raccontò quanto si fosse ispirato al modo di giocare di papà. Poi nel 2011 ho scritto un libro (“Se no che gente saremmo”, premio Bancarella sport, ndr) dove racconto anche di questo e cose che non sapevo perché poi mio padre era sempre pudico nel raccontare. Tra i ritagli la cosa più bella trovata è un articolo di Bianciardi dove immaginava che l’Italia avesse battuto i brasiliani e sarebbe nato un secondo risorgimento. Il pezzo si chiamava appunto “Il secondo risorgimento del cavalier Facchetti”. All’anniversario dei 50 anni ho recitato racconti dal vivo. È una partita mito, simbolo popolare e familiare”.
E il 2006 vissuto da adulto?
“Un po’ anomalo. Mio padre scopre di avere il cancro in maggio. Durante i mondiali lui va dentro e fuori l’ospedale. In quel periodo mandavano in onda anche le vecchie partite. Per la prima volta ho visto Italia-Germania 4-3 insieme a lui. Subito dopo ecco Italia-Brasile e quando segna Gerson mio padre s’infuria e mi dice “dai cambia canale”. Come se fosse in diretta. Poi ci siamo visti le partite. Devo dire che nonostante fosse un momento per il calcio di grandi polemiche e discussioni, il suo amore per l’azzurro andava di pari passo con quello dell’Inter. E comunque quel mondiale ci ha permesso una volta di più di condividere del tempo insieme, come si diceva prima”.
Si parlava di emulazione. Lei bambino ha seguito per un po’ le orme di papà...
“Ho giocato alcuni anni nelle giovanili dell’Atalanta e ho anche 5-6 presenze nell’Under 15. Verso i 19 anni ho capito che non era la mia strada. Ma diciamo che allora giocavano quasi tutti i miei coetanei, ogni oratorio aveva una squadra per tutte le categorie. Oggi credo che quell’offerta e quella partecipazione non ci sia più. C’era molto anche la dimensione dei tornei estivi, quei momenti in cui la comunità si trovava. Il calcio era un po’ come un romanzo popolare. Se crescono meno talenti forse è per questa ragione. Faccio l’esempio del cespuglio: nella sperimentazione molto allargata, dal cespuglio salta fuori qualche fiore. Ora meno, ovvio. Anche l’oratorio è una scuola che scimmiotta un po’ la dimensione professionistica. Il calcio libero è quasi scomparso e non c’è da meravigliarsi se il livellamento è verso il basso”.
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