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E continuava a seguire l’Inter dallo stadio.
«Sino a pochi anni fa sedeva poche file dietro di me in tribuna d’onore, tanto che sono riuscito a presentargli i miei figli. Va poi sottolineata una situazione di cui si parla poco. Suarez, pallone d’oro e fuoriclasse assoluto, cioè uno che aveva conquistato tantissimo da calciatore e che si era distinto nel mondo, accettò di allenare l’Inter in momenti non facili. Non una, ma più volte. Questo è un grandissimo insegnamento. Oggi tutti, prima di prendere un certo incarico, aspettano il momento giusto per non rischiare e per non sporcare magari quel che è stato. Il coraggio di esporsi e di mettersi la faccia quando le cose non girano, è raro. Quella scelta di Luisito fu una grande dimostrazione di interismo, senza alcun dubbio».
Cosa provò il bambino Gianfelice ad essere a stretto contatto con le leggende della Grande Inter?
«Le prime volte ad Appiano Gentile avevo appena compiuto tre anni. Non c’era la conoscenza di quali monumenti avessi di fronte. Stesso discorso per quando mio papà mi portava alle cene con quei campioni. La sensazione era però quella animale di un senso di protezione, nel senso più stretto del termine. Mi ritrovavo con dei giganti buoni che mi facevano sentire al sicuro. Dei colossi gentili, che sapevano giocare con la palla e profumavano di canfora. Poi ovviamente crescendo, non posso non ricordare quando fermavano mio papà e decantavano la formazione della Grande Inter».
Cosa può raccontarmi di quella squadra leggendaria?
«Focalizzo principalmente quello che mi disse una volta il portiere Sarti. Erano ragazzi, atleti e campioni consapevoli di essere stati scelti per realizzare qualcosa di memorabile, di grande, che restasse impresso nel tempo. C’era un’unità di intenti canalizzata dalla figura di Herrera, ma parliamo di una squadra con tanti leader. Picchi era un allenatore in campo, mentre Suarez era un’altra mente, quella che portava a realizzare il gioco voluto dal tecnico. E conosciamo tutti i risultati ottenuti».
Pare si volessero bene, per davvero.
«Credo sia impossibile per chi ha condiviso qualcosa di così speciale non volersene. Non a caso quando Massimo Moratti ha comprato l’Inter, ha (ri)voluto i pezzi grossi di quella squadra, seppur con mansioni diverse all'interno dell'organico del club».
Come si può tramandare la storia della Grande Inter?
«È una sfida. Viviamo un tempo della comunicazione dove conta soprattutto il presente. E la sciocchezza, magari millantata, del calciomercato, conta quasi di più di quel che è stato. Non tutti i club hanno una storia da raccontare. Se ce l’hai, come l’Inter, questa deve diventare fonte d’ispirazione. Da raccontare anche alleggerita e svecchiata per la fruizione dei giovani d’oggi. L’errore più grande sarebbe lasciare indietro tutto, come se fossero situazioni lontanissime solo perché rappresentanti i trionfi del passato. La propria identità passa dalle figure più importanti e dai momenti epici della tua squadra. Credo che un club debba quindi conoscere e saper maneggiare la sua storia, che per forza ha un peso. Se lo sai fare, anche con coraggio, tutto può essere ancora più affascinante».
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