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Cosa può raccontarmi di quella squadra leggendaria?
«Focalizzo principalmente quello che mi disse una volta il portiere Sarti. Erano ragazzi, atleti e campioni consapevoli di essere stati scelti per realizzare qualcosa di memorabile, di grande, che restasse impresso nel tempo. C’era un’unità di intenti canalizzata dalla figura di Herrera, ma parliamo di una squadra con tanti leader. Picchi era un allenatore in campo, mentre Suarez era un’altra mente, quella che portava a realizzare il gioco voluto dal tecnico. E conosciamo tutti i risultati ottenuti».
Pare si volessero bene, per davvero.
«Credo sia impossibile per chi ha condiviso qualcosa di così speciale non volersene. Non a caso quando Massimo Moratti ha comprato l’Inter, ha (ri)voluto i pezzi grossi di quella squadra, seppur con mansioni diverse all'interno dell'organico del club».
Come si può tramandare la storia della Grande Inter?
«È una sfida. Viviamo un tempo della comunicazione dove conta soprattutto il presente. E la sciocchezza, magari millantata, del calciomercato, conta quasi di più di quel che è stato. Non tutti i club hanno una storia da raccontare. Se ce l’hai, come l’Inter, questa deve diventare fonte d’ispirazione. Da raccontare anche alleggerita e svecchiata per la fruizione dei giovani d’oggi. L’errore più grande sarebbe lasciare indietro tutto, come se fossero situazioni lontanissime solo perché rappresentanti i trionfi del passato. La propria identità passa dalle figure più importanti e dai momenti epici della tua squadra. Credo che un club debba quindi conoscere e saper maneggiare la sua storia, che per forza ha un peso. Se lo sai fare, anche con coraggio, tutto può essere ancora più affascinante».
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