Intervistato dal Corriere della Sera, Gianfelice Facchetti racconta il papà, che domani avrebbe compiuto 80 anni. "Per un giudizio completo bisogna fare un passo indietro e pensare all’educazione che lui, mio padre, ha ricevuto: è cresciuto in un contesto familiare dove il concetto di dialogo non c’era. Il nonno era di poche parole: “si fa così…”. Per carità, papà era diverso, si metteva in discussione, ma amava la concretezza. Per esempio, la mia scelta di studiare teatro, fare l’attore, il regista, qualche problema tra me e lui l’ha creato inizialmente. Riaffiorava la sua concretezza: “sì, va bene, molti ti riconoscono talento e capacità ma poi…”, pensando magari all’azienda di famiglia, la società di assicurazioni. Invece col tempo è diventato un mio sostenitore, seguiva con grande attenzione il mio lavoro, veniva più volte a vedere lo stesso spettacolo. Gioele Dix mi rivelò la felicità di papà nel vedermi realizzato e attivo in questo mondo".
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Facchetti: “Vi racconto papà Giacinto. Per lui l’Inter era una famiglia. Con Moratti…”
Che campione è stato?
«Ero piccolo quando ha smesso di giocare, poi era pudico. Si lasciava andare, con vittorie, aneddoti, imprese e racconti straordinari solo se era in compagnia di qualche compagno di squadra, era bello, divertente ascoltarlo».
Compagni-amici con i quali stava meglio, si sentiva a suo agio?
«Tra i compagni dell’Inter, quelli più vicini direi Tarcisio Burgnich (compagno di stanza per anni), Boninsegna e Adelio Moro che nell’ultimo anno di carriera gli fece da “autista” e che papà convinse a cambiar macchina perché nella spider stava stretto, non era comodo».
Chi erano i campioni di Giacinto Facchetti?
«Aveva una particolare stima di Lev Yashin, Pelé con il quale poi costruì un rapporto di amicizia, Eusebio, il suo Ronaldo, il fuoriclasse brasiliano».
Cos’era l’Inter per lui?
«Da ragazzo la realizzazione di un sogno: aveva voluto fortemente l’Inter privilegiandola ad altre squadre. Poi è diventata un’altra famiglia, molto forte il rapporto con Massimo Moratti, anche se non sono mancate diversità di opinioni, però rispetto e amicizia permettevano sempre di trovare l’equilibrio per soluzioni e decisioni giuste. Sull’Inter diventava rigido e severo, guai a scherzare: noi figli, per esempio, non potevamo fare ironie, battute, diventare tifosi da bar. Si arrabbiava».
Che calcio gli piaceva?
«Ha vissuto da protagonista quello vincente di Helenio Herrera. In sintesi gli piaceva creare le basi del gioco puntellando la difesa, voleva che si garantisse sicurezza per cercare meglio, con più tranquillità la fase offensiva. Sempre in sintesi: il tiki taka non lo avrebbe fatto impazzire».
Che dirigente è stato? Il figlio Gianfelice lo promuove?
«Ha vissuto tutte le trasformazioni del calcio, giocato e politico. Non aveva lauree, ma ha studiato lo sport a livello politico istituzionale, le lingue, inglese e francese diventando autonomo, rispettato e autorevole presso Fifa e Uefa. Ricordo un’intervista di Diego Della Valle, imprenditore famoso nel mondo, che auspicava un ruolo da presidente federale per papà. Uno dei suoi grandi meriti di dirigente, credo, è stato quello di metterci sempre la faccia. Ripercorrendo certe sue azioni, penso si sia caricato in certi momenti delicati anche di responsabilità non sue».
Quanto le manca?
«Parlo volentieri di lui ai miei figlioli, Lupo e Teresa, sono curiosi, vogliono vedere i filmati del loro nonno. Papà e io abbiamo riso, gioito, pianto insieme. Aveva una grande qualità: pensava prima agli altri, a noi figli, a mamma, ai tifosi, all’Inter, poi per ultimo a se stesso».
(Corriere della Sera)
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