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Gianfelice Facchetti, figlio della bandiera neroazzurra Giacinto, ricorda con l'AGI Gigi Riva, eroe di uno sport di altri tempi, partendo proprio dalla Supercoppa italiana giocata in Arabia: "E' stato vergognoso assistere ad una semifinale tra Napoli e Fiorentina in uno stadio con 9000 spettatori che non sapevano nemmeno cosa stessero guardando (magari perché qualcuno ha pagato per loro il biglietto per entrare) e cori registrati, solo per denaro. Mi sembra uno scenario avvilente per il calcio italiano. Ancora più imbarazzante ricordare un mito assoluto del calcio, senza prevedere che questa commemorazione non è contemplata dalla cultura araba, e senza averne dunque il controllo, lasciando che questo momento venga ricoperto da fischi assordanti. Per giunta con un precedente avvenuto solo qualche settimana fa in occasione della morte di Backenbauer, fischiato allo stesso modo", ricordato prima della Semifinale di Supercoppa Spagnola tra Real e Atletico Madrid.
"Questo dilettantismo è inaccettabile. Così come lo è che nessuno metta la faccia chiedendo scusa e rivedendo le scelte adottate finora e cercare altre soluzioni per raggiungere gli stessi obbiettivi. Questo sarebbe stato un colpo di scena molto apprezzato". E aggiunge: "Se il minuto di silenzio per ricordare delle leggende deve diventare un teatrino penoso tra chi non rispetta questo momento, una sorta di drive in in cui si gioca a pallone, che si abolisca piuttosto, lasciamo stare le cose serie, mettiamole da un'altra parte". Proprio "Questo "sincronismo tra la finale di ieri e l'addio a Gigi Riva, racconta la distanza tra il calcio che abbiamo amato, e che dovrebbe fare dei passi indietro, e il calcio di oggi, governato da figure che c'entrano poco con lo sport e la passione".
Facchetti ricorda il calcio di una volta partendo proprio dallo storico scudetto del Cagliari nella stagione 69-70, con la leggenda Gigi Riva in campo: una "congiunzione astrale da considerare", osserva Facchetti. "A quei tempi, i calciatori più rappresentativi della Nazionale erano considerati degli "ambasciatori", come se fossero dei Ministri, con un potere e una capacità di unire ed elevare il senso di appartenenza molto profonda di un popolo, molto meglio di chi aveva l'incarico istituzionale di farlo. Un momento unico e irripetibile in cui il calciatore apparteneva al mondo della gente comune, la incontrava per strada, ci condivideva tempo, scambiava parole, parlava lo stesso linguaggio. Oggi i calciatori vengono tenuti dentro delle bolle, il loro contatto con i tifosi è effimero, si consuma durante la partita e fuori da li non esiste, è impossibile coltivarlo. Per osmosi e con il proprio esempio, i genitori trasmettono dei valori ai figli: nel mio caso sicuramente sono legati a quel tipo di sport, degli appassionati, della gente comune, che era patrimonio del calcio e che oggi si fa di tutto per disperderlo e disintegrarlo".
(AGI)
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