L'ex centrocampista nerazzurro ha ottenuto la sua vera identità e permesso di soggiorno perché riconosciuto come vittima di tratta di esseri umani
La sua storia, che conoscono ormai tutti, da ieri si è arricchita di un nuovo capitolo. Assane Gnoukouri è tornato a essere Alassane Traoré, ottenendo il codice fiscale con il suo vero nome e permesso di soggiorno almeno fino ai supplementari con la commissione territoriale. L'ex centrocampista dell'Inter ha ripercorso ancora una volta la lunga vicenda che lo riguarda, sottolineando la sua verità alla Gazzetta dello Sport.
Partendo da quel giorno in cui un agente arriva a casa sua «e mi dice se voglio andare in Italia, che sarei anche andato a scuola. Parla con mia madre, è contenta che mi diano quest’opportunità. Io sognavo di fare il calciatore, che potevo dire?». Sembra l’inizio di una bella storia, poi tutto cambia. «Mi dicono che i documenti sono falsi, ma il falso mica l’ho fatto io. Il signor Gnoukouri, che mi aveva adottato, non l’ho più sentito. Lui e l’agente promettevano che avrebbero mandato i soldi dell’Inter a mia madre, ma non era vero. Sa cosa fa rabbia? Che ho dato il cuore. Per il mio agente, mi sono fidato. Per il padre adottivo: il mio l’ho perso da piccolo e lui l’ho trattato come un padre vero. E per l’Inter, perché ho sempre lavorato duro».
Gli amici in nerazzurro? «Kondogbia, Brozovic, Perisic, Biabiany, mi volevano bene tutti. E Mancini mi dava fiducia. Con tanti giocatori forti, mi guardava negli occhi e sceglieva me». Il giorno del derby lo racconta come la scena di un film: «Mi ferma la mattina: “Stasera giochi. Non hai paura, vero?”. “Certo che no”. Invece ne ho tanta, ma nel calcio la paura non te la puoi permettere.
Chiamo la mamma: “Prega per me, ho una partita che vedrà in tutto il mondo”. E lei: “Non serve, prego per te ogni giorno”». Due gli amici che gli hanno fatto da luce nei momenti bui: «Kessie, siamo come fratelli. E Vecchi, allenatore della Primavera, mi ha trattato come un figlio. Non per soldi: in un mondo dove tanti spariscono, se ho bisogno di parlare c’è».