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Il Foglio: “Con Thohir finisce la borghesia bauscia. Ma quell’empatia con Moratti…”

Maurizio Crippa, giornalista de Il Foglio, ha dedicato un lungo pezzo alla cessione dell’Inter da parte di Massimo Moratti. Un pezzo intriso di romanticismo nei confronti di una dinastia che ha fatto la storia della squadra nerazzurra:...

Daniele Mari

Maurizio Crippa, giornalista de Il Foglio, ha dedicato un lungo pezzo alla cessione dell'Inter da parte di Massimo Moratti. Un pezzo intriso di romanticismo nei confronti di una dinastia che ha fatto la storia della squadra nerazzurra:

"Perché poi che cosa se ne va davvero, come una dissolvenza nei colori della notte, “il nero e l’azzurro sullo sfondo d’oro delle stelle”, che cosa svanisce davvero della sponda inquieta e folle del balùn meneghino, se Massimo Moratti, il petroliere della Milàn di sciuri, che al Forte gira in bicicletta come un vero sciur de Milàn, vende davvero la sua Inter (mah, chissà, è ancora 12X), e non a un suo pari o a un suo dispari, ma al giovane tycoon indonesiano? Le carte son pronte e le garanzie bancarie pure, è arrivato in città Erick Thohir, con i suoi trecento milioni di euro in saccoccia pronti subito per il 75 per cento di un reame nobile del  piccolo mondo  antico, ma assediato dai debiti. Sarebbe il nuovo eldorado del calcio global-finanziario, ma sarebbe anche l’addio al calcio vecchio, alla vecchia Beneamata Inter. Se fosse solo un passaggio di mano, dopo una lunga corsa sulle montagne russe del calcio, tra bidoni e trionfi, vittorie e dolori, non sarebbe quasi niente, non sentirebbe neanche lui, il Massimo, questo strappo muscolare nell’anima, che lo fa esitare, rimandare. Invece, assieme ai Moratti, se ne andrebbero davvero molte anime, molte cose insieme. E non si tratta solo del football.

In fondo, l’Inter non è nata Moratti. Papà Angelo la comprò, coi bei danè fatti in raffineria, dal Carlo Masseroni, imprenditore nel settore pneumatici, che l’aveva pescata quando autarchicamente si chiamava Ambrosiana, nel 1942, poco convinto, raccontò un giorno Peppino Prisco che c’era già, perché preferiva il ciclismo. In fondo, anche Angelo Moratti, dopo tredici anni di trionfi internazionali, dopo aver prima sofferto e poi creato il mito della Grande Inter, e trovato il suo Mago, lasciò la mano nel 1968 all’Ivanoe Fraizzoli, gran tempra di fornitore di tessuti militari e alberghieri con vetrine in via De Amicis, che una volta era ancora zona manifatturiera. Poi il Fraizzoli la lasciò, dopo anni malmostosi, all’Ernesto Pellegrini, il re delle mense. In fondo, due Moratti minori, due imprenditori lombardi con i piedi ben dentro la terra e le mani sempre sul pezzo, il profilo basso e l’accento largo e generoso, grasso. Minga bauscia, e senza il glamour da Milano del boom del Grande Angelo, con quella sua zazzera grigia e gli occhiali scuri e le donne e il resto, un quasi Onassis di terraferma. Ma insomma due della stessa razza, della stessa lingua, della stessa Milano. Non è mica come vendere adesso a un indonesiano quarantenne e sicuro di sé che manda avanti gli avvocati di merger and acquisition, e si è già comprato una squadra di basket a Philadelphia. Uno che ha un business di famiglia alle spalle – dalle auto a giornali e tv – che la Saras, la petrolifera di famiglia dei Moratti, se lo sogna. Uno che raccontano anche in gamba, che fa il simpatico su Twitter, ma in inglese, idioma meno largo e generoso. Ma che di certo non sarà mai lì tutte le domeniche in tribuna, lui e la Milli e la Bedi e i figli, e pure il Tronchetti Provera che è uno della famiglia allargata, a esultare e smadonnare e fumare come un turco, in casa o in trasferta. La sua Inter. La casa dei Moratti.

Che poi se ne va davvero qualcosa d’altro. Una certa Milano. Non la “Milano che non c’è più” che ci ammorba di nostalgia da cartolina (e il Derby e la nebbia e il Gaber e Jannacci, gran milanista ad ogni buon conto), non la Milano delle fabbriche, di “io dell’Inter, lei del Milan”. No, finisce (inizia a finire) anche una Milano più recente, quella che negli ultimi decenni è stata il palcoscenico di un altro tycoon, ma brianzolo, che l’ha trasformata con le televisioni e la pubblicità, la grande distribuzione e tutto il resto, fino a tirarle fuori dalle budella pure un’anima politica. Mentre dall’altra parte, ma pur sempre dentro la stessa ricchezza affluente e antropologica da happy hour, inseguiva la Milano progressista, radical chic, di Gino Strada e di Gino & Michele, di Salvatores e della Smemoranda, delle Storie tese di Elio e di don Colmegna. La Milano insomma che ha sempre amato i Moratti, il Massimo petroliere e sua moglie Milli, la pasionaria  ecologista che gira in bici e a Palazzo Marino faceva battaglie sullo sviluppo sostenibile della città, contro l’algida cognata Letizia. La Milano dell’Inter è stata lo specchio rovesciato della Milano di Berlusconi, nel suo quarto di secolo trionfale contrapposto in un derby eterno all’altra città, quella piena di buona coscienza e nevrotica come i colori della notte. Le due squadre di Milano sono state lo specchio di due Italie, e non è lo stesso per Roma, non per Torino. Non sarà lo stesso se se ne andranno i Moratti, l’unica dinastia calcistica italiana che regna da mezzo secolo, assieme ai diversamente regnanti Agnelli. Certo, potrebbe rimanere un altro Moratti, Angelomario detto Mao, con un incarico di consulenza o vicepresidente, come già è. Ma non è lo stesso, quando invece della riunione di famiglia ci sarà un board di manager internazionali.

Se ne va un tipo di imprenditore, con gli uffici in centro e lo sguardo fino ai confini nazionali, perché le dimensioni non sono più le stesse. La piccola Saras che fattura una dozzina di miliardi all’anno non ha più il fiato per competere nel mondo globale del petrolio, per quanto abbia aggiustato la barca vendendo ai russi di Rosneft un buon 20 per cento delle quote, e cerchi nuove vie di internazionalizzazione, verso est. Ma non ha più il fiato per mantenere il business-giocattolo del calcio ai livelli dei grandi mondiali. Troppi soldi, troppa internazionalizzazione. Vendere si deve, e sono gli stessi cupi pensieri che da tempo frullano nella testa anche al Cavaliere. Orgoglio, amore e necessità. Così per una volta Moratti potrebbe essere colui che indica la rotta della modernità, lui che in questi anni di calcio è sempre stato costretto a inseguire, con affanno, modelli più avanzati di business e di squadra. Ci aveva già provato un anno fa, a mettersi in società con un gigante cinese, attirato in zona Expo per costruire finalmente il grande stadio che ancora l’Inter non ha. Ma era finita in vacca, come capita troppo spesso alle imprese italiane quando si scontrano con le grandi dimensioni e con la piccineria delle burocrazie locali. Ora forse sarà lui ad aprire il calcio alla globalizzazione, alla dimensione del calcio planetario. Sarebbe una bella uscita di scena, in fondo nel segno di un destino già scritto: “Si chiamerà Internazionale, perché noi siamo fratelli del mondo”. Se anche Berlusconi un giorno venderà, se gli Agnelli invece hanno portato all’estero le fabbriche ma tenuto qui la squadra e i giornali, Moratti lo farà lui, per primo, il passo. (Sì, l’ha fatto anche la Roma, ma non sembra la stessa cosa). Potrebbe esserci anche un atterraggio morbido, con Thohir che si accontenta per ora di una quota di minoranza, il 40-45 per cento. Ma non cambierebbe poi nulla.

Ma chissà cosa resterà, di quella storia del cuore che si chiama Internazionale di Milano. Chissà come, e se, guarirà la particolare, leggendaria, psicopatologia interista. Perché adesso sarà anche facile tornare a vincere, con i soldi indonesiani, e speriamo che ricapiti, e del resto ci si dimentica presto il passato. Ma quello che non sarà più la stessa cosa, è un pezzo della psicologia del tifoso dell’Inter, che da cinquant’anni vive in simbiosi con gli entusiasmi e le paturnie di casa Moratti. Il tifoso interista che fedele al motto della sua squadra, “pazza ma amala”, alla fine non riesce a gioire se non per quanto ha sofferto, è contento del campione solo perché si ricorda il brocco strapagato, gode della vittoria solo perché brucia ancora l’ultima sconfitta (mai stati in B, però). E adesso, vincere perché avrai un padrone indonesiano con la mascella quadrata e l’aria cazzuta, di quelli che non sbagliano il colpo e se lo sbagli tu non ti perdonerà, come per cinquant’anni ha fatto il paternalismo spendaccione dei Moratti, e ti caccia, non è lo stesso. Non sa il tifoso interista, in fondo non lo sa, se sia meglio masticare amaro e potersi incazzare per l’ultima scemenza di Branca, per l’ultimo Recoba, o se sarà meglio quando non ci sarà niente su cui ridire. Ma senza più neanche i Morattos là in tribuna, da potergli gridare “ma va’ a cagare” o cantare “c’è solo un presidente”, a domeniche alterne.

L’Inter dei Moratti, fin dagli anni di Angelo, è stata anche un tipo di milanesità. La borghesia ambrosiana un po’ bauscia, ma riservata e perbene. Angelo era il patriarca della famiglia allargata, dei ragazzi fatti studiare senza badare al quattrino, della Befana dei calciatori per i bambini poveri e anche della messa a Natale, chi voleva. E con Massimo è diventata l’Inter del sostegno a Emergency, della Fondazione Pupi di Javier Zanetti, delle aste benefiche e degli Inter Campus in Sudamerica per i bambini poveri. Il sogno generoso e un po’ velleitario, più che ideologico, di essere una squadra diversa, che non si dimentica di quel che c’è fuori dal campo. L’Inter dei Moratti è sempre stata qualcosa di più, per la sua città, di un simbolo dello sport e del tifo, anche se non ha mai avuto le idee chiare o la forza per diventare “més que un club”. Ma è rimasta diversa dalla squadra-azienda, dal marchio popolar-globale che tiene insieme spettacolo e consumo in cui Berlusconi ha forgiato il suo Milan postmoderno e vincente.

E’ qualcosa che ha avuto a che fare, più spesso nelle batoste e nei sogni infranti che nei trionfi, anche con uno stile di calcio, di gioco, di dimensione puramente sportiva che l’Inter ha incarnato nei decenni, comprese le parentesi vicarie di affidamento ad altri. Una storia unica, sottilmente romantica e a volte disastrosa, quella dell’identificazione di una famiglia con i colori notturni di una maglia, e peggio ancora l’identificazione di un figlio con il padre. Massimo è rientrato alla presidenza nel 1995, ricomprandosi il gioiello di famiglia, la casa di campagna, da un esausto Pellegrini che l’aveva tenuta in custodia, in tanti anni e uno scudetto matto e bello come sempre, ma senza snaturarne l’anima, senza cambiare la tappezzeria, i riti e lo stile di casa. Come gli orologi Pateck Philippe, che non si possiedono mai del tutto, ma si conservano e si tramandano e caso mai si restituiscono. Da allora, il figlio ha convissuto, amorevolmente convissuto, con il mito di suo padre, e con i fantasmi dei moschettieri degli anni Sessanta, quelli che erano lì in carne e ossa – Facchetti, Mazzola – e quelli che c’erano in spirito. Ogni volta che si sedeva in tribuna, nell’eterna nebbiolina fredda di San Siro, nella fila sopra di lui, come fantasmi di Banquo o minacciosi basilischi, come enigmatici giganti dell’isola di Pasqua, c’erano i campioni della Grande Inter di suo padre. Per scacciarli, per rimpiazzarli con i suoi campioni in carne e ossa, Massimo ha fatto l’impossibile, speso l’impossibile. Sbagliato spesso l’impossibile. Ma alla fine creando il suo pantheon. Fin quando poi c’è riuscito, con la sua di Grande Inter. Ma prima ha dovuto trovare il suo Mago, il suo Filosofo Mourinho. E adesso che ha vinto tutto, che l’incubo si è sciolto in un gran sorriso e nelle lacrime, è stata come una liberazione. Se ora se ne andrà, la seconda Grande Inter resterà nella storia con quelli che ormai sono i suoi compagni per la vita, il suo capitano Zanetti, il suo Cambiasso, e Deki e Diego e gli altri. E José Mourinho soprattutto, irripetibile (per altri quarant’anni, si teme) come l’Helenio Herrera di suo padre. Una storia incredibile, da romanzo, un po’ notturna come gli incubi ricorrenti. Ma a lieto fine. Perché HH e Mou rimangono nella storia, unici e fuori misura. E tutti gli altri potranno anche aver vinto di più, ma non così, non con due come loro. Due larger than life.Ecco che cosa se ne andrebbe davvero, con l’addio all’Inter dei Moratti, alla Milano dei Moratti. Che poi però, chi lo sa, fino al fischio finale non sai mai cosa si possono inventare. Un contropiede, un colpo di genio, un tiraccio da trenta metri. E il risultato cambia ancora. Pazza Inter morattiana, amala".