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Le grandi speranze che l’ Inter ripone in una repentina consacrazione di Rafinha Alcantara devono dipendere dalla diversità di quest’ultimo, emersa già nello spezzone di gara contro il Crotone. Mancino naturale, il figlio di Mazinho sa come toccare il pallone, e quasi sempre lo fa col sinistro. Più gli spazi sono ridotti, e la trequarti affollata, più il suo gioco si esprime. Portatore di un calcio delle idee in un’ Inter senza pensatori, può e deve fare la differenza grazie a quell’estro innato e non allenato, se non rubando segreti all’ex compagno Messi, il giocatore più forte del pianeta, mancino come il più forte della storia, Diego. Ma è, d’altronde, la scienza
a spiegarci che i mancini, specie nello sport, hanno un vantaggio: la mano o il piede sinistro sono collegati all’emisfero destro del cervello, la parte che regola le funzioni visuospaziali, e da questo dipende la maggiore velocità di pensiero ed elaborazione nel gioco, oltre alla spiccata creatività.
Secondo il quotidiano Libero Spalletti gode dunque di un privilegio: in Italia i mancini puri, perlopiù fantasisti, sono merce rara. Da qui l’idea di un modulo Rafinha-centrico, con tutti i rischi del caso. Sì, perché alla diversità dei calciatori mancini corrisponde infatti un bagaglio di difetti peculiari. Si guardi alla storia dell’ Inter, piena di giocatori incompiuti che del mancinismo hanno ereditato anche i peccati, purché in tal senso la scienza non si pronunci. Ecco, i mancini interisti si ricordano pure per l’indolenza, la discontinuità, la debolezza caratteriale. Pur procedendo in ordine sparso,non si può che partire da Alvaro Recoba, il Chino, il pupillo di Moratti. Tanto da sopportarne la pigrizia sempre pari a quel talento cristallino che si manifestava in ogni giocata. Tutto sembrava nascere da quel sinistro, anche la noia esistenziale. L’uruguaiano ha avuto diversi interlocutori nei 10 anni all’Inter, e coi mancini l’intesa è stata folgorante: chiedere a Christian Vieri oppure Oba Martins, specializzati nel trovare il gol col piede sinistro. Merita una parentesi a parte Adriano, l’ Imperatoreche ha abdicato troppo presto: ogni missile mancino era una litania per gli avversari.
Ma quando Adriano ha perso il sorriso, il calcio ha perso Adriano, irrimediabilmente. Ma ai cultoridel piede sinistro piace ricordare anche il talento più di nicchia, come quello del turco Emre Belozoglu (memorabile la doppietta Lazio-Inter 3-3, con pregevole pallonetto) o di Kily Gonzalez, venuto con Cuper da Valencia, ma in fase ormai calante (non trovò mai il gol). Con più rimpianto si ripensa a Mimmo Morfeo, che nell’ Inter giocò un anno senza incidere: colpa dei limiti caratteriali, gli stessi che hanno fregato poi Santiago Solari, preso dal Real nel 2005 dopo una corte infinita. Il Principito, fenomeno a Madrid, a Milano si è spento progressivamente. Nella mappa-memento di ogni interista hanno un posto speciale anche le meteore, due in particolare: Shaqiri e Podolski, arrivati insieme nel gennaio 2015, accolti da una folla in festa all’aeroporto, insieme sono fuggiti 5 mesi più tardi. Per non dire degli acquisti sbagliati: Alvarez preso al posto di Lamela nel 2011 e Gabigol al posto di Gabriel Jesus (quello forte, oggi al City) l’anno passato. Di mancini era piena anche l’ Inter del Triplete, tre in particolare dalla metà campo in su: Cambiasso e Thiago Motta, non fantasisti ma architetti di quella squadra, e Pandev, mancino atipico perché tecnicamente nella media, ma una garanzia nel temperamento. Tutti hanno lasciato un segno, non fosse altro che per la loro diversità. La stessa che fa di Rafinha una rischiosa scommessa. Da giocare a ogni costo.
(Fonte: Alberto Neglia, Libero 7/2/18)
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