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Marotta: “Sogno la Champions. Stadio? 70.000 posti a Rozzano. Lukaku? Lo definisco così”

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Beppe Marotta, presidente dell'Inter, parla in esclusiva a Sette: ecco i passaggi principali dell'intervista tra passato, presente e futuro
Alessandro Cosattini Redattore 

Beppe Marotta, presidente dell'Inter, parla in esclusiva a Sette. Ecco i passaggi principali della sua intervista tra passato, presente e futuro.

A 19 anni è diventato responsabile del settore giovanile del Varese: ha anche un passato da calciatore?

«Stando vicino a tanti campioni, ho im parato anche a un po’ a giocare (sorride). Sono arrivato fino alla Primavera, ma la volontà di fare il dirigente ha prevalso su una carriera in campo che sarebbe stata comunque limitata».


Ruolo?

«Centrocampista».

Chi è stato il suo maestro?

«Ho un ricordo particolare di Pietro Maroso, prima giocatore e poi allenatore di quel Varese. Era fratello di Virgilio del grande Torino. È lui che mi ha svezzato».

Nel 1980 ha portato al Varese Michelangelo Rampulla, nel 1993 Christian Vieri a Ravenna. Poi tante altre intuizioni: come si scopre un talento?

«È molto semplice perché il talento si evidenzia da solo per le qualità che ha, difficile è scoprire un buon giocatore».

Come si distingue l’uno dall’altro?

«Avere talento non è sufficiente per diventare un campione, questa dote deve essere accompagnata da qualità umane che si sviluppano negli anni: se uno arriva in un’età matura rimanendo solo un buon giocatore che usa i piedi ma senza aver coltivato sé stesso, si perde. Ne ho visti tanti».

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È cambiato molto il suo lavoro?

«Prima le decisioni venivano prese dal singolo dirigente, oggi siamo davanti a un team composto da osservatori e da “tecnici” che analizzano dati, risultati, rendimento atletico. Addirittura, in alcuni casi, un giocatore lo si può scegliere attraverso gli algoritmi, così il calcio è diventato meno bucolico e quasi industriale».

La tecnologia è infallibile?

«No. È un aspetto fondamentale della nostra società civile, uno strumento importante che può aiutarti a raggiungere l’obiettivo, ma non è determinante rispetto alla valutazione finale, che ha bisogno sempre di una componente umana».

Un giocatore che ancora oggi la ringrazia?

«Tanti e non solo quelli che hanno fatto due o trecento partite in Serie A. Alcuni hanno militato solo qualche anno con i professionisti, ma mi sono grati per aver dato loro una possibilità».

Uno a cui è legato?

«Michelangelo Rampulla. Ci sentiamo: è rimasto nel calcio come allenatore dei portieri. La nostra carriera è stata parallela, sia- mo cresciuti assieme, quando lo comprai aveva 18 anni, solo 5 meno di me».

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Il suo primo incarico importante è stato in un settore giovanile, quanto contano le scuole calcio?

«L’ambiente è completamente cambiato. Oggi gli allenatori, in qualsiasi categoria e società, sono pressati dall’ottenere risultati: insegnano poca tecnica di base e si concentrano più sugli schemi. Per questo la qualità e la creatività dei giocatori è diminuita rispetto agli Anni 70-80. In più, c’è da dire che il talento statisticamente nasce nei ceti meno abbienti e oggi se non si paga un’iscrizione non si può praticare il calcio. Questo rischia di tagliare fuori tanti potenziali campioni, che magari vivono in famiglie che non possono sostenere quei costi. Succede perché le società non hanno ricavi, non c’è il piccolo commerciante che mette il nome sulle maglie o appende striscioni. E negli oratori non ci sono più le elemosine a coprire i costi di gestione dei campi».

Cosa suggerisce?

«C’è la necessità – molto più di una volta – di inserire le discipline sportive, calcio compreso, nel sistema scolastico. È lì che i nostri ragazzi devono cominciare a praticare sport, è un loro diritto. I bambini devono giocare, non solo guardare chi lo fa. È importante si confrontino sul campo, serve per la loro crescita fisica e caratteriale».

Due Mondiali non giocati e un Europeo dal quale siamo usciti malamente: troppi giocatori stranieri in Serie A?

«Non è colpa loro che, anzi, se sono bravi servono per far crescere i ragazzi dei vivai. Torniamo al discorso di prima, quello che oggi manca è un’apertura al mondo del calcio, un mondo non più accessibile a tutti».

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Anche l’Inter farà una seconda squadra?

«Non subito. È sicuramente uno strumento utile per far crescere e maturare i ragazzi, oggi tra Primavera e Prima squadra c’è un buco legato all’età che non permette uno scambio positivo. Avere la seconda squadra significa allestire un gruppo cui può attingere l’allenatore della Prima».

Cosa importante giocando così spesso.

«Sì, ci sono troppe partite e questa è anche una mancanza di rispetto verso i gioca- tori che sono esseri umani e faticano a sopportare pressioni agonistiche così elevate».

Tante società hanno proprietà straniere: il mecenatismo in Italia è finito?

«Sta sparendo in tutte le categorie, dalla terza alla serie A. Resta un numero esiguo di eccezioni. Oggi in Lombardia ci sono 5 squadre di Serie A, di cui 4 di proprietà straniere. Se Inter e Milan non avessero avuto questa gestione già da qualche anno, sarebbero in situazioni che definirei drammatiche. Per fortuna che ci sono stati investitori stranieri che hanno creduto in noi, certo dando vita a una gestione molto diversa: ora il concetto di sostenibilità è centrale, l’impostazione è più simile a quella di un’azienda con i risultati economici che superano qualsiasi tipo di obiettivo».

Non si rischia di allontanare i tifosi?

«No, l’importante è dare vita a uno spettacolo. La gente vuole soprattutto vede- re una bella partita, per questo viene allo stadio. Era così in passato, quando le proprietà erano italiane, ed è così oggi».

Un giocatore che ha inseguito senza successo?

«Ce ne sono stati diversi. Però un dirigente deve avere l’ambizione di puntare sempre in alto e non avere paura: non raggiungere l’obiettivo non è una sconfitta. Il tentativo va sempre fatto, nello sport senza coraggio non si ottengono risultati».

E una follia per convincere un giocatore a venire in una sua squadra?

«Capita spessissimo che per ottenere il sì di un calciatore devi fare un giro più largo... quando sono molto giovani devi conquistare per primi i genitori e quando sono in età matura ci sono le compagne».

Un presidente con cui ha combattuto?

«Ne ho avuti tanti e completamente diversi: dalla famiglia Agnelli a personaggi “particolari” come Zamparini. Lui, ad esempio, sapeva tanto di calcio e diventava un contraddittorio molto forte».

Inter Marotta Cano Ralph

Oggi all’Inter il presidente è lei.

«Sono grato a Oaktree per la fiducia. Conto su una struttura societaria forte, su una squadra di professionisti molto seri, oltre che capaci, e su un pubblico che è il nostro valore aggiunto. Metterò in pratica l’esperienza del vissuto precedente».

Otto anni alla Juve, il ricordo più bello?

«Il primo scudetto conquistato a Trieste in campo neutro contro il Cagliari. Per me che pensavo di aver già toccato il cielo con un dito arrivando in Champions League con la Sampdoria, aver vinto lì ha significato molto. Poi sono arrivate tre finali di Champions e ogni volta che raggiungi un nuovo obiettivo pensi che sia quello il più importante. Il bello dello sport è che ti porta a inseguire sempre lo step successivo».

Ha citato la Sampdoria, che magia aveva?

«Prima di tutto la maglia, era speciale. Poi c’era quella chimica strana che a volte si crea unendo ogni componente della società, dal magazziniere al presidente: e tutti danno il meglio. Così Davide diventa Golia».

Nel 2005 alla Samp arriva Simone Inzaghi.

«Ricordo bene, si è unito a noi a gennaio in uno scambio con Bazzani. Simone era un giocatore apprezzato da tutti».

Arriviamo ad oggi: campionato, finale di Champions e seconda stella, il prossimo traguardo nerazzurro?

«Innanzitutto l’Inter è l’Inter, quello che è stato fatto sotto la mia gestione non è nulla di straordinario perché questa era una squadra abituata a vincere. Ha passato un periodo di buio e sofferenza, per questo quando abbiamo riconquistato insieme il primo scudetto è come se in quello ce ne fossero stati altri tre e quando a maggio abbiamo vinto ancora, portando la seconda stella, è come se questo nuovo scudetto ne contenesse dieci. Ora l’Inter è ritornata a essere l’Inter che è sempre stata nella storia, l’obiettivo è puntare in alto. Un sogno è quello di regalarci la Champions. Alzare l’asticella non è un atto di presunzione, ma di orgoglio e consapevolezza. Dobbiamo provarci, l’importante è non avere rimpianti».

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Tra la gioia dei due scudetti è arrivato l’addio di Lukaku, una delusione?

«Non lo definirei così. L’episodio Lukaku ha rappresentato poco rispetto a tutte le emozioni positive e all’adrenalina che si sono vissute in questi anni».

Lo rivorrebbe all’Inter?

«A Lukaku dobbiamo tutti noi un ringraziamento per quello che ha fatto, si è sempre impegnato e ha sempre fatto bene. Ricordiamolo per questo: per le cose belle, non per quelle brutte. E poi non dimentichiamoci che ha rappresentato l’operazione più strana, particolare e positiva per l’Inter nella sua storia. Lo abbiamo valorizzato in una maniera incredibile e questo ha dato poi dei riscontri importanti dal punto di vista economico per costruire la conquista della seconda stella. Con lui abbiamo vinto lo scudetto e rimane nella storia dell’Inter».

Come sarà la stagione che sta per iniziare?

«Sono ottimista di natura, sarà bella».

Il progetto del nuovo stadio?

«Ci manca una casa. Oggi abbiamo San Siro che condividiamo con un’altra squadra, ma uno spazio tutto nostro rafforzerebbe quel grande senso di appartenenza che è caratteristica importante nella vita di una società di calcio. Stiamo facendo di tutto per realizzare questo sogno che è nostro come dei tifosi. Combattiamo con la burocrazia italiana che dilata i tempi».

Una casa per l’Inter significa anche qualcosa più di un campo da calcio?

«Una cittadella sarebbe una bella cosa. Purtroppo non è facile da realizzare, ma almeno uno stadio sarebbe indispensabile».

San Siro è sempre pieno, che capienza pensate per la nuova struttura?

«Per il progetto di Rozzano ragioniamo su 70 mila posti».

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Cosa vorrebbe cambiare in serie A?

«Il clima che si respira dal punto di vista dirigenziale è di litigiosità, anche esasperata. In ambito sportivo introdurrei un concetto importante che non abbiamo, la cultura della sconfitta. Spesso quando si perde una partita, diventa un dramma e non dovrebbe essere così, ogni sconfitta fa crescere. Atteggiamenti negativi o eccessivi in serie A vengono emulati nelle categorie minori. Ci sono campi di ragazzini che riempiono le cronache con scontri dentro e fuori il campo. Dobbiamo dare l’esempio».

Ha due gemelli, appassionati di calcio?

«Elena molto di più, Giovanni un po’ meno, ma probabilmente è arrabbiato perché non ci sono mai. Hanno 14 anni».

Che papà è?

«Sono in debito con i miei figli. Credo che la presenza, quella fisica, susciti in loro una forma di sicurezza, unità di intenti, senso di appartenenza alla famiglia. Da questo punto di vista sono molto deficitario. Temo che ne pagherò le conseguenze».

È sempre allo stadio.

«Sì, forse anche un po’ troppo. C’è un grande innamoramento dietro la mia professione nel mondo del calcio».

Per chi tifano i ragazzi?

«Sono marottiani».

E la sua squadra del cuore?

«Sono nato e cresciuto a Varese. Lì ho giocato e iniziato la mia carriera da dirigente. Purtroppo ora è in una categoria molto bassa e fatica a dare emozioni. E le emozioni nel calcio sono tutto»

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