Dopo qualche annata passate nelle retrovie del nostro calcio, Ibrahima Mbaye si sta finalmente conquistando un posto importante nel campionato di Serie A. Il ragazzo, cresciuto nelle giovanili dell’Inter (esordio in prima squadra con Mourinho in panchina), dalla scorsa estate è diventato a tutti gli effetti un calciatore del Bologna. Da sei mesi era già diventato rossoblu, ma con la promozione del club felsineo in Serie A il suo cartellino (prima in prestito) è stato automaticamente riscattato.
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MBAYE: “È ARRIVATA LA MIA CHANCE. LAVORO, PEDALO, STO ZITTO. GIOCAVO SCALZO, OGGI…”
Dopo qualche annata passate nelle retrovie del nostro calcio, Ibrahima Mbaye si sta finalmente conquistando un posto importante nel campionato di Serie A. Il ragazzo, cresciuto nelle giovanili dell’Inter (esordio in prima squadra con Mourinho in...
All’inizio è stato difficile trovare spazio in squadra, ma da qualche partita il giovane senegalese (classe ’94) è stato schierato tra i titolari da mister Donadoni. Il Corriere della Sera, edizione Bologna, lo ha intervistato.
Ibrahima Mbaye per un anno è stato a guardare, poi cos’è successo?
«Ho faticato e ho pagato anche qualche problema fisico, ma mi sono allenato sempre. Credo in me stesso e rispetto sempre le scelte dell’allenatore. Aspettavo solo la mia opportunità ed è arrivata».
Cosa le ha detto Donadoni prima di lanciarla tra i titolari?
«Stai tranquillo e divertiti. Poi una serie di altre cose che non posso ripetere».
Nel suo ruolo siete in tanti: lei, Ferrari, Krafth, Rossettini. Come vive la concorrenza?
«Serve a crescere. Io non ci penso quando mi alleno e gioco, penso solo a fare il mio e a dare il massimo».
Ha saltato le vacanze invernali per allenarsi e si è conquistato il posto. È la riprova che il lavoro paga.
«Dicono così, ma non so se è vero. So però che vengo da lontano. E che nessuno mi ha mai regalato niente. Lavorare, pedalare e stare zitto: questo so. E questo faccio».
A cosa ha rinunciato per arrivare a giocare in serie A?
«Più che rinunce, qualche sacrificio. Ma io gioco a calcio, mi diverto a lavorare. Quindi sono bei sacrifici. C’è gente che si alza all’alba e lavora fino a tarda sera, i loro sono sacrifici veri, non i miei».
Fa parte di una rosa infarcita di giovani talenti. Uno alla volta stata venendo fuori tutti. Si immaginava che il Bologna sarebbe sbocciato così?
«Chi ha costruito la squadra sapeva quel che faceva. C’è il giusto mix di giovani e vecchi: è un bel gruppo».
Lei ha cominciato a giocare a calcio scalzo. Ci pensa mai?
«Sì. Poi, se anche non fosse, c’è Donsah che me lo ricorda sempre: “Giocavi senza scarpini e ora hai le Nike ai piedi”. Ma lo prendo in giro pure io, perché anche lui ha fatto lo stesso».
E com’era per lei, prima, il calcio?
«Era un’altra cosa. Giocavo davanti a casa, con gli amici. Si smetteva solo quando tua madre ti urlava di rientrare a casa che era pronta la cena».
Quegli amici li sente ancora?
«Con Facetime e Skype li vedo pure, come la mia famiglia di origine. Poi ci torno a giocare, quando vado in Senegal. Alcuni giocano a calcio lì, altri hanno smesso».
Quali sono le opportunità di lavoro nel suo Paese?
«L’agricoltura e poco altro».
Lei sta dando una mano alla sua gente.
«Per realizzare un ponte nel mio Paese, a Sedhiou: dobbiamo portarci l’acqua potabile».
Ma i suoi genitori erano convinti della scelta di giocare a calcio?
«Mia madre non ha mai voluto che giocassi a calcio. Voleva che studiassi. E all’Étoile Lusitania, dove ho cominciato, andavo la mattina, proprio quando sarei dovuto andare a scuola. Per due mesi non mi ha parlato. Ma dopo ho studiato, continuando a giocare a calcio. Ora mi parla. Anzi a breve mi verrà a trovare qui a Bologna».
La sua nuova famiglia vive a Medolla, dove lei tornò nei giorni del terremoto.
«Mia mamma Antonella non stava bene. E stare con loro, in quel momento, mi sembrava la cosa più giusta. Chiesi all’Inter un permesso e me l’accordarono. Spesso vengono a trovarmi, a volte vado io là. Ci sentiamo sempre».
Quanto manca alla conclusione dell’adozione?
«Poco, credo che tra due o tre mesi l’adozione sarà cosa fatta. È la mia famiglia da sette anni, io voglio bene a loro e loro vogliono bene a me. Ma la mia è una famiglia allargata: c’è anche quella in Africa».
C’è un insegnamento che ha fatto suo?
«Con Beppe (Accardi, procuratore e padre adottivo di Ibra, ndr), che io chiamo Capo, ripetiamo sempre assieme: piano, piano si arriva lontano».
E dove vuole arrivare, Ibrahima?
«Io non mi pongo limiti. Do il massimo per ottenere il massimo».
E questo Bologna dove può arrivare?
«Una partita alla volta all’obiettivo che ci siamo prefissati, poi vediamo».
Domenica tornate in campo contro il Carpi. Forse è più facile sfidare l’Inter…
«Non so perché i risultati migliori li otteniamo contro le grandi. Ma di partite facili in serie A non ce ne sono».
(Corriere di Bologna)
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