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È fatta: l’Inter si vende, ma MassimoMoratti non lo dice. Come se non ce la faccia fino in fondo. Vendu... manca l’ultimo pezzo. Gira attorno, si avvicina a quella frase,ma si ferma un attimo prima. C’è l’accordo? «Non direi, ma credo che non sarò più presidente». Ecco: lo dice senza dirlo davvero. L’Inter non sarà più dei Moratti. Vende quello che mai avresti pensato che avrebbe venduto davvero. Perché in questi quattro mesi di trattative c’è sempre stata la sensazione che poi, alla fine, Moratti si sarebbe fermato. Come uno che scappa sull’altare. Per se stesso, per tenersi la sua vita. Invece venderà. Così sembra ormai certo, anche se la firma sul passaggio non c’è. L’altare sarà onorato da queste nozze miste e Moratti, come tutti gli sposi forzati, si pentirà quando sarà tardi. Succede e succederà: l’Inter sarà straniera, qualcuno chic dice «sarà Internazionale», come da nome di nascita.
Non è vero che all’estero non investono più nel nostro Paese: Erick Thohir mette capitali in Italia e nel nostro calcio.L’Inter non è la prima squadra in mano a imprenditori che parlano altre lingue, ma è come se lo fosse. Perché è diverso e perché a vendere è Massimo Moratti. Cioè un ricchissimo signore che comprò l’Inter non per business, ma per un trasporto emotivamente folle. Un tifoso. Moratti è stato lo sceicco bianco del calcio europeo per tanto tempo: ha speso per provare a vincere e però perdeva, poi ha continuato a spendere per vincere e ha vinto. Tifoso per questo, per l’insistenza, per la capacità di vedere sfumare il denaro della sua famiglia in acquisti sbagliati, in allenatori imbranati. Seicento milioni di euro bruciati in acquisti prima di trovare pace. Persino i nemici che s’è fatto in questi anni, specie dopo i primi successi, gli riconoscono una specificità: mai messo il se stesso imprenditore davanti al se stesso tifoso.
Questo gli ha procurato ironie, sfottò, battute. Soprattutto gli ha procurato immensi dolori, che nel pallone sono semprepiù duraturi e profondi delle immense gioie. Poi è cambiato il mondo. Il suo e il nostro: non si può essere come mister Paris Saint Germain e mister Manchester City. Non è più tempo per noi, canterebbe l’interista Ligabue. Non è tempo né per l'Italia, né per l'Inter. Moratti arretra: per i primi dieci anniè rimasto uguale a se stesso, convinto che l'amore, la storia, il passato di una famiglia che fece grande una squadra, fossero abbastanza per avere applausi e gloria, per sentirsi dire grazie anche se non vinceva mai e di fronte aveva quei cannibali di vittorie milanisti e juventini.
L'uomo che in una sera aprì la cassaforte di famiglia per riprendersi quello che sentiva suo. Strani i ricordi di quel momentodel ’95 se ci pensi adesso. Perché allora, comprando, Moratti non ebbe paura di lanciarsi e dirlo: «Abbiamo raggiuntoun accordo». Prima di tornare a casa, il nuovo padrone dell'Inter rilasciò la prima dichiarazione: «Dovevo farlo, i Moratti non potevano stare troppo lontani da quel club. È come se il Papa decidesse di non tornare in Vaticano dopo un viaggio all'estero». Qualche giorno dopo chiarì il concetto: «Noi Moratti sentiamo l'Inter come una cosa nostra, qualcosa che ci sta ormai nel sangue e che ci portiamo dietro nel ricordo di nostro padre, del capo,come lo chiamavamo. Assumere la guida della società è stata una scelta sentimentale e un po' condizionata dal fatto che, proprio per questi sentimenti, era difficile sottrarsi alle aspettative».
Quelle aspettative per tanto tempo hanno fatto una brutta fine. Poi hanno trovato sfogo definitivo con il 2010, con la vittoria di campionato, coppa Italia e Champions League insieme. Il triplete. Con un pizzico di nostalgia, forse, perché la coppa dei Campioni Moratti avrebbe voluto vincerla con un gol di Recoba. Una cosa impossibile, una cosa da tifoso.Vendere dopo aver vinto è solo un po’ meglio. Solo un po’. La verità, vera, unica,certa, quella che va oltre la voce, quella chenonti fa finire le frasi, è che vendere costa. Più che comprare.
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