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Spiegati meglio.
«Ad esempio, i tanti giovani che ho fatto esordire, giovani che con me sono cresciuti in questi due anni. Quando lavori in un club come il Real Madrid, il Manchester, il Chelsea, se lanci un giovane a stagione hai già fatto il massimo. In questa fase della carriera avevo bisogno di stabilità, sentivo che qualcosa in me era cambiato. Prima volevo e dovevo arrivare, fare, spostarmi, vivevo uno stato di costante irrequietezza. Ero in un posto, facevo il mio lavoro, vincevo e mi spingevo oltre, volevo andare a vincere da un’altra parte».
Hai rischiato parecchio, però. I paletti del Financial Fair Play, il mercato a zero, la condanna ad adattarti all’emergenza. Anche questa è la Roma, oggi.
«Real, Inter, United, Chelsea due volte, a quei livelli il profilo è molto, molto chiaro. Gli investimenti, la storia del club, gli obiettivi tutti altissimi: arrivi per vincere e vincere subito. Quando ho firmato con la Roma sapevo perfettamente a cosa andavo incontro».
Fatico a crederti.
«Devi farlo. Ovviamente per me tornare in Italia non significava andare incontro all’ignoto, questo è un Paese che conosco bene a livello culturale, storico e sportivo. Sapevo che sul piano sociale la Roma era un club assolutamente fantastico, ma anche che dal punto di vista della storia calcistica aveva vinto poco, nonostante tantissimi bravi allenatori e tantissimi giocatori di prima fascia, e investimenti anche. Quando conosci la realtà romanista ti chiedi perché si sia vinto così poco. Possibile che tu non possa fare qualcosa di diverso per aiutare il club, la nuova proprietà? Se adesso mi domandi se sono pentito della scelta, rispondo di no. Assolutamente no».
Beh, in questi due anni qualche attimo di sconforto l’hai vissuto.
«Frustrazione sì, momenti di frustrazione».
Nel secondo anno le cose sono peraltro peggiorate, in termini di risorse a disposizione.
«Il primo anno conoscevo la situazione, percepivo la voglia della proprietà di crescere e ho pensato: ok, questo è perfetto per me. Un profilo come il mio, uno che ha vinto tanto, di solito non accetta facilmente un progetto potenzialmente minore. Mi viene in mente solo Ancelotti all’Everton».
E prim’ancora al Napoli.
«Quando uno come noi accetta questo rischio, la gente pensa “è fi nito”, poi Carlo va al Real Madrid e vince tutto quello che c’era da vincere. Questa esperienza a Roma è stimolante, ricca, di una ricchezza su più piani. Oggi ho un rapporto con i miei giocatori che non è facile instaurare in un top club».
Oddio, all’Inter si sarebbero buttati nel fuoco per te.
(Sorride).
C’è chi pensa che tu abbia accettato la Roma soltanto perché, dopo tutte le esperienze fatte, ti sei ritrovato un mercato ristretto.
«Non è una mia preoccupazione».
Avevi pensato di andartene?
«No».
Mmmmh.
«Ho sempre fatto il mio lavoro senza pensare al dopo».
Morata.
«Ti dico solo che non è Mbappé».
È Morata, su.
«Non è Mbappé, però penso sempre, anche quando non siamo d’accordo, che Pinto voglia le stesse cose che voglio io».
Sicuro?
«Sì, sono sicuro, sicuro. L’obiettivo comune è che la squadra ottenga il miglior risultato possibile».
Parlami di Dybala.
«Quando è arrivato il primo di agosto e la clausola non è stata più esercitabile, ho dormito meglio, lui è di livello altissimo e per noi è oro, non possiamo rinunciare a lui. Quando siamo costretti a farlo perché è infortunato o perché è stanco o è rientrato cotto dalla nazionale, sono guai seri. La sua qualità come giocatore non mi ha sorpreso per niente. È il bambino che mi ha colpito, io dico sempre che quelli bravi, bravi, bravi sono così: umili, rispettosi con i colleghi, io sono passato attraverso tante generazioni, perché alleno come assistente dal ’92 e anche da prima, dal ’91, e questo ragazzo non è di questa generazione. È fantastico, ti dico io che è fantastico, la gente conosce il suo potenziale come giocatore, io posso dire che il potenziale come ragazzo non è per niente inferiore».
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