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Fra 48 ore, Lele Oriali torna a sedersi in panchina a San Siro, da dirigente della Figc, dopo quattro anni e mezzo. Ultima volta: domenica 9 maggio 2010, Inter-Chievo 4-3, penultima di campionato, il mese del triplete nerazzurro, prima che con l’arrivo di Benitez si consumasse il divorzio dall’Inter. Allora stava accanto a José Mourinho, domenica con la Croazia sarà a fianco di Antonio Conte, Oriali, che effetto fa questo ritorno?
«Devo dire la verità. È da un po’ di tempo che ci penso; per me non sarà una serata come le altre ed è inutile che dica il contrario per fare il fenomeno. Non lo sarà perché ho sempre considerato San Siro come la mia casa, almeno calcistica, e perché quando ho smesso di giocare, sognavo di fare il dirigente dell’Inter e mi sarebbe piaciuto fare un’esperienza anche con la Nazionale. Adesso tornare qui da dirigente azzurro è un’emozione vera. Questo nuovo incarico è stata una sorpresa che mi ha fatto il presidente Tavecchio ed è qualcosa che per me è un grande onore e un grande impegno. Un paio di anni fa, mi era stato chiesto di scrivere un libro sulla mia vita; ho rifiutato, perché pensavo di non avere ancora chiuso con il calcio. Ed è arrivata questa occasione, senza che io la cercassi».
Si ricorda ancora la prima volta a San Siro?«Era il 1967, torneo Rapizzi; ero agitatissimo, perché non avevo nemmeno 15 anni e perché venivo dalla campagna, come si diceva allora. Ma era andata bene: vittoria dell’Inter e premio come miglior giocatore. Da allora ho sempre amato San Siro. Ho cominciato da terzino destro, proprio come marcatore. Ho fatto anche il terzino sinistro, e lì spingevo di più, sull’esempio di Facchetti. Poi sono stato trasformato in mediano già da Invernizzi. Dovevo marcare quasi sempre quello che era il numero 10 degli avversari.
Un impegno faticoso...«Erano tempi duri. Qualche volta mi è andata bene, qualche altra no. Ma ho sempre dato tutto, anche quando nel 1972 mi sono trovato a marcare Jimmy Johnstone del Celtic, un’ala che mi scappava da tutte le parti e che dovevo rincorrere sempre».
Prima volta a San Siro in campionato il 3 ottobre 1971, Inter-Atalanta 2-0...«Avevo esordito il 7 febbraio 1971 all’Olimpico contro la Roma, e avevo fatto un’altra partita a Catania, da stopper con Cella libero, nell’anno dello scudetto con sorpasso a Milan e Napoli. E da ottobre 1971 è cominciata l’avventura».
Ma è vero che San Siro è uno stadio che mette paura?«Può darsi, ma io non ho mai sentito né il peso di questo stadio, né quello della maglia, anche se non è che ho giocato sempre bene. Io a San Siro mi sentivo sostenuto e protetto; quando giocavo io non c’era ancora il terzo anello, la gente stava in piedi, si sentivano la spinta dei tifosi, la loro passione, la forza di trascinamento. Si sente che il pubblico è esigente, ma anche competente. E che ti sta vicino. Dire che San Siro è uno stadio speciale non è un luogo comune, è la verità. Regala un’emozione speciale, come il Bernabeu, il Nou Camp, Old Trafford, per fare paragoni stranieri».
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