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Si candida alla presidenza dell’Associazione italiana arbitri?
—«No. Io sono un tecnico. Certo oggi l’Aia è afflitta da conflitti interni tra diverse correnti politiche che poi interferiscono nella gestione tecnica. È fondamentale dare una svolta, ma guidare un’organizzazione con oltre 30 mila associati e 206 sezioni richiede un ampio spettro di competenze amministrative e organizzative. Credo che potrei dare il mio contributo solo in un progetto politico che miri a separare nettamente la gestione associativa epolitica da quella sportiva».
Quindi?
—«Il futuro dell’Aia dipende dalla capacità di trovare una nuova guida in grado di affrontare le sfide con una visione manageriale e strategica. Un uomo che comprenda le esigenze associative e abbia la capacità di realizzare progetti tecnici concreti e sostenibili. Il presidente ideale dovrebbe essere un dirigente di grande esperienza, magari non proveniente dai campi di Serie A, ma con una visione chiara del futuro dell’Associazione. L’ Aia è piena di eccellenti professionalità e io credo che alla guida serva un approccio professionale».
Lei ha iniziato ai tempi dei movioloni. Ha finito con il Var. Che cambiamento c’è stato? E cosa pensa del Var?
—«Il Var è ormai uno strumento indispensabile per ridurre gli errori arbitrali, ma occorre continuare a costruire una generazioni di arbitri che sappiano decidere con personalità. Il Var deve aiutarli, non sostituirli. A volte la certezza non c’è neanche nelle immagini e quindi ladecisione del campo rimarrà spesso insostituibile».
L’errore che non vorrebbe rifare? E una curiosità: perché non arbitrava più l’Inter?
—«Nella carriera di un arbitro sono ovviamente tanti gli errori commessi e tutti ti lasciano dentro una certa amarezza. Non saprei indicarne qualcuno in particolare. Ho arbitrato tante volte tutte le squadre, alcune più frequentemente e altre meno. Quale sia il momento di dirigerne una piuttosto che un’altra lo decide il designatore».
(Repubblica)
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