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L’ex portiere Paoloni: “Ai miei tempi scommettevano anche i dirigenti. Penso anche ora”

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L'ex portiere, squalificato per combine nel 2012 ma poi assolto nel 2019: "Era diventata una dipendenza ma non ho mai venduto una partita"
Matteo Pifferi Redattore 

Marco Paoloni, ex portiere della Cremonese che nel 2011 fu radiato con l'accusa di aver messo il sonnifero nelle bottigliette d'acqua dei compagni per combinare il risultato delle partite salvo poi essere assolto dalla Giustizia penale nel 2019, ha parlato al Corriere della Sera dello scandalo scommesse, avendo lui ammesso pubblicamente di essere stato uno scommettitore incallito:

«Ero compulsivo, giocavo su tutto: poker online, tennis, basket, anche serie A e Coppe europee. Ma non mi sono mai venduto una partita, mai!».


Come mai questo vizio? O malattia?

«Malattia malattia. Era diventata una dipendenza. Per me dietro c’era un discorso di adrenalina e di libertà, ma questo l’ho capito dopo esserne uscito. Ero giovanissimo, non mi mancava nulla e mi sentivo onnipotente. In campo avevo quell’ansia da prestazione che era pura adrenalina. Fuori cercavo la stessa scossa, ma ero limitato dalla mia ex moglie che mi controllava dappertutto, anche in bagno. Nelle scommesse ritrovavo quella sensazione ed era un mondo tutto mio, bastava un clic, nessuno mi vedeva... Non era dunque tanto una questione di denaro. Solo chi si vende le partite lo fa per questo. Il fatto è che non mi sono reso conto di aver superato il limite. Ero arrivato a stare sveglio di notte e il divertimento si è così trasformato in malattia. Ero diventato ludopatico».

Quanti eravate a scommettere?

«Il fenomeno era molto diffuso. Soprattutto fra i giocatori ma talvolta lo facevano anche i vertici delle società. Per loro era però diverso».

In che senso?

«Loro non erano malati. Cercavano solo di far quadrare i conti delle società. Parlo della mia epoca, ma penso che le cose non siano cambiate molto. Quella delle scommesse è una giostra di soldi che fa comodo a tutti».

Si fa fatica a capire come dei giovani privilegiati che hanno fama, gloria e ricchezza, possano cadere in questo baratro.

«La malattia non guarda in faccia nessuno».

Quanto ha perso scommettendo?

«In tre anni circa 600 mila euro e ne prendevo 200 mila all’anno di stipendio. Ho iniziato ad Ascoli con un compagno di squadra che mi fece vedere un sito, un po’ come Fagioli con Tonali. Io non lo sapevo ma dietro c’era la malavita, tutto partiva da Singapore».

Lei è stato assolto dall’accusa del Minias, e la frode sportiva?

«Prescritta. Risultato: radiato senza aver subito condanne. Ho smesso di giocare a 27 anni, quando è arrivata l’assoluzione ne avevo 39 ed ero troppo vecchio per rientrare. Il mio caso dovrebbe insegnare prudenza perché si rischia di rovinare carriere e famiglie per poi magari scoprire che c’è poco o nulla. Mi sento vicino a questi ragazzi, dico una sola cosa: fatevi subito aiutare».

Lei l’ha fatto?

«Sì, mi hanno curato gli specialisti. La psicologa mi disse: “Non so come tu non ti sia suicidato”. Avevo perso lavoro e famiglia, è stata dura».

Non ha più scommesso?

«Ho fatto un lungo percorso. Sono passato dallo stato di compulsione al divertimento, giocando una volta ogni tanto. Ma ci sono voluti anni».

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