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Quale?
«Il ringiovanimento, come ha detto Spalletti, è necessario. Ma non tanto nell’età, visto che l’Italia è giovane. Dovremo essere più giovani nello spirito di squadra. Nella testa. Troppe domande sono senza risposta. Com’è possibile che tu abbia un ct come Spalletti, un capodelegazione come Buffon, e non reagisca? Cosa è successo a Berlino? I giocatori sembravano catatonici. Come fai a dare un giudizio su una prestazione così? Vista la Georgia?»
Ha lottato col coltello tra i denti.
«Ma certo. Non ha la qualità della Spagna, neanche dell’Italia, escluso Kvara, ma ha corso e lottato fino all’ultimo, cercando il gol, anche se ormai aveva perso. Anche la Danimarca con la Germania non s’è arresa. Non come noi: passaggi orizzontali a due all’ora. Luciano deve ringiovanire i giocatori nella testa. Si reagisce così».
C’è davvero un problema di distanza tra allenatore e ct? Si impara a diventare ct?
«Domanda difficilissima. Non c’è una vera risposta, perché i grandi tornei, anche quelli che abbiamo vinto, sono spesso condizionati da episodi. Puoi intervenire fino a un certo punto. Però di sicuro devi ridurre il tuo ego, il tuo io, e metterti a disposizione: nel senso che devi adattarti ai giocatori. Non sei un tecnico federale che li conosce da quando avevano quattordici anni. Hai poco tempo, poca confidenza. Serve una sintesi. Scegli e fai che siano loro i protagonisti. Non alleni la Spagna».
Servono accorgimenti tattici? Forse con i cambi abbiamo esagerato…
«Non ero nella testa di Spalletti, probabilmente non aveva garanzie, riceveva risposte poco rassicuranti e ha cercato di trovare equilibrio in qualche modo. Non è stato neanche facile: il blocco Inter ha deluso perché erano giù, avevano vinto lo scudetto troppo presto per restare in condizione. Spiace dirlo ma è così. Però sicuramente un progetto va trovato».
Un progetto, più che un fuoriclasse. Perché non sembra che ne siano rimasti a casa o che possano arrivare fenomeni…
«Lo sappiamo da anni che è così. Già prima ci siamo trovati a fine ciclo senza vere alternative. Ogni tanto si cerca di esibire un po’ di ottimismo. Ma serve un progetto che non soffochi i talenti. Non dobbiamo essere totalmente negativi: qualche buon giocatore c’è, ma non deve pensare al possesso e al sistema tattico fin da ragazzo. Facciamo crescere giocatori che abbiano carattere, determinazione, senso di appartenenza, generosità, che facciano squadra».
E invece?
«Invece inculchiamo ai giovani, ogni giorno, l’idea dell’impostazione dal basso, del possesso, del dominio. Io avevo una squadra giovanile fantastica ma che soffriva da morire se non aveva il dominio: per due mesi ho dovuto lavorare su aggressione e ri-aggressione. Noi stiamo lavorando solo su una parte. Basta con il possesso fine a se stesso. Il giochismo va bene nella prima squadra. Tra i giovani si deve giocare liberamente, anche rinvii, difesa, contropiede. O mortifichiamo il talento».
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