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Intervenuto ai microfoni del Corriere della Sera, l'ex centrocampista Clarence Seedorf è tornato a parlare del tema dei cori razzisti nel calcio.
Clarence, lei ha giocato e allenato in Italia per quasi vent'anni: lo ricorda come un Paese razzista?
«Non lo definirei razzista, generalizzare è sempre sbagliato. Ma l'Italia non è esente dal problema del razzismo. Io di episodi sulla mia persona non ne ho mai vissuti. Nel mondo, quando mi muovo, riesco a rompere le barriere con chi incontro. Non sono cieco, ma non vedo il colore».
Perché negli stadi si fischiano i calciatori neri e non gli artisti, tipo i rapper?
«Perché se non sei un uomo di colore di potere - un artista, un politico - è più difficile essere riconosciuti».
Il suo mondo è il calcio.
«La Uefa ha dato i numeri: nel calcio europeo, a livello manageriale (panchina inclusa), le minoranze sono meno del 3%. Le cifre parlano chiaro. A me interessa che ci siano tolleranza e eguaglianza di opportunità. E rispetto per tutti. La diversità non è un' opinione, è un valore aggiunto».
Parliamone.
«Nel calcio lo è da molto tempo: le squadre con cui ho vinto tutto, per esempio, erano un simbolo di diversità. Il messaggio è da far passare anche con leggi adeguate, che costringano ad aprire gli occhi anche chi vuole rimanere ignorante».
Fermare le partite quando partono i cori e gli insulti razzisti è giusto?
«È sbagliato. Dell'episodio di Koulibaly in Inter-Napoli so tutto. Non ho parlato con Kalidou né con il mio amico Carlo Ancelotti, ma ho opinioni precise. Sono troppi anni che in Italia si accettano i cori razzisti che partono da piccoli gruppi di ultrà. Il 99% delle persone allo stadio sono veri tifosi, che hanno il diritto di assistere allo spettacolo per il quale hanno pagato. Non sono d'accordo con lo stop del gioco e l'uscita dal campo».
Come si può intervenire, allora, secondo lei?
«Facendo leggi adeguate, che permettano alle autorità di intervenire subito. Come? Identificando i tifosi ed espellendoli, come si fa in Premier League: così l'Inghilterra ha risolto l'enorme problema degli hooligans. Ma non solo...».
Dica.
«Non tutti i giocatori hanno la forza emotiva di Dani Alves, che in risposta alle provocazioni razziste durante un Villarreal-Barcellona raccolse la banana che gli fu lanciata, la sbucciò e se la mangiò. Mitico. È quello l'esempio da seguire».
Di Dani Alves ce n'è uno. Gli altri sbroccano, come Koulibaly. È umano.
«Bisogna essere superiori. Io avrei fatto due gol! Certo non tutti abbiamo la capacità di mettere in moto un circolo virtuoso da un episodio che ci ferisce, ma la sfida è proprio questa. Smettere di giocare significa dare ragione ai razzisti, fare il loro gioco. E, alla fine, rovinare la festa».
E il ruolo degli altri? Spettatori, stadio, compagni.
«Tutto lo stadio dovrebbe applaudire: 70 mila persone che applaudono, neutralizzano i fischi di pochi. Mi è stato suggerito da un tifoso su Instagram. E poi intervenga lo speaker: metta della musica, degli applausi finti ad alto volume. Cancellerebbero tutto il resto. Davanti ai buuu razzisti tutti devono reagire, altrimenti si finisce per essere complici. E questo anche fuori dallo stadio».
L'Italia, poi, è la patria del calcio.
«Non sapere crea paura di ciò che non si conosce. Ma per sapere bisogna promuovere la diversità facendo vivere ai bambini diverse culture che li aprano al mondo anche attraverso politiche che guardino ai prossimi 15-20 anni. Loro sono il futuro e di certo non nascono razzisti».
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