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Lei, a quell'epoca, già giocava.
"Avevo 19 anni, ero al Como. Un giorno l'allenatore Marchioro ci radunò prima di affrontare il Palermo, e disse: "Ho sentito che circolano brutte voci su di noi. Ma se domenica vedo cose strane da parte di qualcuno, lo metto fuori a costo di finire la partita in sette". Ero esterrefatto. Dopo pochi mesi, accadde quello che accadde. L'opacità esisteva anche allora".
Non crede che le dinamiche di spogliatoio fossero diverse?
"Noi avevamo corpi e voci, parlavamo, però le tentazioni non mancavano. Un mio compagno di camera al Bari, durante i ritiri a una certa ora di sera andava a giocare forte a carte con altri. Una volta mi disse che si era bruciato lo stipendio di un mese, anche se non erano neppure alla lontana le cifre di oggi".
Calciatori ventenni, azzurri, vittime della scimmia del gioco. Come lo spiega?
"Lo trovo sconvolgente, una deriva forse irrimediabile. Intere generazioni risucchiate da smartphone e tablet, ragazzi intrappolati lì dentro. E, quando sono bambini al campetto, i loro genitori cominciano a montarli con le illusioni, i soldi, la carriera. Ormai è un modo di interpretare la vita. E ogni rapporto con gli altri è filtrato da questi aggeggi elettronici, che sarebbero strumenti magnifici se non venissero usati solo così. Il mio tweet è stato contestato, ma io temo che certi giovani siano rapiti dalle loro stesse vite".
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