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Serie A in crisi. Tutto comincia con la pay tv. Le televisioni, incassando di più, dovevano rendere i club più forti. Tali entrate, tuttavia, non sono state investite per programmare, ma hanno surrogato l’autofinanziamento, il tradizionale esborso del presidente padrone e tifoso, figura in via d’estinzione. È nata una forma di assistenzialismo: la Serie A non produce con mezzi propri uno spettacolo da rivendere sul mercato, ma campa dei diritti tv, come fosse un sussidio di disoccupazione. I ricavi delle squadre arrivano per il 57% dai diritti televisivi. In Germania il 29%, in Spagna il 38%, in Inghilterra il 51% (ma è il torneo più ricco). Si configura una rischiosità da concentrazione del fatturato: come se un fornitore avesse un solo grosso cliente, e legasse a lui il proprio destino e le proprie strategie, senza preoccuparsi di sviluppare il prodotto o di conquistare altre fette di mercato. In A, diventano presidenti anche piccoli imprenditori che un tempo non avrebbero potuto: si accontentano di gestire gli incassi delle tv, cercano di far pochi danni e salvarsi. Il risultato? Uno spettacolo imbarazzante. Semplificando: prendono i soldi dei media, principale entrata, e pagano gli stipendi, principale costo. Non sperimentano, non rischiano. Anzi: il credito dei diritti tv viene “scontato” a inizio stagione dalle banche, che anticipano ai club i quattrini anche per il pane.
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