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I professionisti del calcio — società, tecnici, giocatori — forse sottovalutano l’impatto economico del romanticismo. Perché questo è il tifo: romantico, oppure non è. Chi ama una squadra per tutta la vita sa di inseguire un’idea platonica, fatta di memoria, di colori e di nomi. I presidenti, gli allenatori e i giocatori cambiano, certo. Ma quelli che rimangono — nella storia, nei ricordi — valgono di più. In tutti i sensi. Un giocatore come Nicolò Barella — gli dèi del calcio ce lo conservino — è partito da Cagliari (dove gli vogliono bene) e ora sta facendo la storia dell’Inter: il suo valore — anche economico — è accresciuto da questa fedeltà. Lo stesso vale per Lautaro Martinez o Alessandro Bastoni.
Valgono di più per il marketing, per le televisioni, per la professione che sceglieranno alla fine della carriera. Non sono gli unici, ovviamente, per cui si può fare un ragionamento del genere. Ma il ragionamento va fatto. È vero che noi tifosi siamo ingenui; stupidi, no. Quello che ci muove, ci entusiasma e ci induce a spendere (biglietti, abbonamenti tv, maglie e gadget, tempo sul web, tempo di lettura e di ascolto) è un sentimento senza nome che si avvicina all’affetto. Ai calciatori e ai procuratori diciamo: non irridetelo, non umiliatelo con la vostra ingordigia. Altrimenti ci saranno conseguenze. Certo, anche economiche. Chi compra le maglie di Lukaku, oggi?
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