Si nasce con qualcosa. A casa mia erano tutti laureati – e mi sono laureato anche io, con i miei ritmi – ma quando mio fratello mi ha portato per la prima volta al campetto mi sono innamorato subito del pallone. Poi lo stadio: lo Stadio della Vittoria prima, il San Nicola poi. La passione in famiglia l’ho portata io, da tifoso del Bari e da giovane calciatore delle giovanili.
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Il 1994 è stato un anno incredibile. 16 anni, finale Allievi Nazionali. Bari-Brescia, affrontiamo una squadra quotatissima con questi ragazzi di cui tutti parlano un gran bene: Roberto Baronio, Emiliano Bonazzoli, Andrea Pirlo. Al settimo minuto faccio gol di testa, poi ci mettiamo tutti dietro e vinciamo il titolo di campioni d’Italia con una difesa a oltranza. Era una squadra davvero forte la nostra, due anni dopo avremmo vinto il Viareggio.
Io mi allenavo già con la prima squadra. Il 6 novembre 1994 Beppe Materazzi, papà di Marco e all’epoca allenatore del Bari, mi porta a Firenze in panchina. Perdiamo 2-0 ma verso il 90’ mi fa entrare: debutto in A a 16 anni. Mi marca un difensore brasiliano: è Marcio Santos. Io avevo passato l’estate a tifare Italia ai Mondiali Usa ’94, sapevo bene chi era Santos. Campione del mondo con il Brasile, l’unico al quale Pagliuca aveva parato il rigore a Pasadena. Entro e mi dà subito un calcione di benvenuto. Beh, quel calcio me lo sono rivenduto per settimane in paese con i miei amici. Andavo da loro e dicevo: “Oh ragazzi, Marcio Santos mi ha dato un calcio!”. Era pura felicità.
È stato il periodo più bello, quello in cui alimentavo e vivevo il sogno di ogni ragazzo: giocavo nella squadra con la quale ero cresciuto, che tifavo. Sono entrato nella storia del Bari con il gol promozione, quello del ritorno in A. Ero in rampa di lancio, poi contro l’Empoli il primo crac, dopo il contrasto con Baldini.
Di colpo l’entusiasmo si spegne, subentra la paura. Non c’era la tecnologia di oggi, non avevo indizi su come poteva essere il mio futuro.
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