C’è differenza tra capitanare una squadra come l’Inter e guidare i talenti di cuochi e personale dei suoi ristoranti? Una brigata di cucina in fondo somiglia allo spogliatoio.
—«Il leader deve dare l’esempio, il segreto è tutto qui, in campo o in un ristorante. Contano solo i fatti. Non puoi predicare il senso del dovere e presentarti al lavoro per ultimo. Certo bisogna scegliersi le persone giuste, creare un gruppo coeso, una grande squadra. Direi che ci sono riuscito».
Cosa ha di speciale la sua città adottiva?
—«È una città che è cresciuta tanto da quando, nel 1995, sono venuto qui per giocare. Abito a Como, ma amo Milano, mi fa sentire vivo. A passeggio tra Duomo, la Scala, San Babila sento l’adrenalina, come quando la squadra segna un gol».
Perché ha deciso di investire nella ristorazione proprio a Milano?
—«Perché mancava, fino a qualche anno fa, il profumo della carne arrostita che a Buenos Aires senti a ogni angolo. Così ho cominciato con El Gaucho, un posto per gli argentini, il nostro quartier generale dove ritrovarsi tra amici. Poi è arrivato El Botinero e, da qualche settimana, El Patio del Gaucho, decentrato, in una location molto bella, formata da tante terrazze. Mi piace vedere la gente che si diverte nei miei locali, posti non formali, vivaci pezzetti di Argentina».
Piatti della tradizione italiana che ama?
—«Sembra banale, ma ho grande predilezione per il risotto alla milanese. Al Botinero lo fanno speciale come piace a me, si chiama Risotto Pupi, classico allo zafferano, ma arricchito con ragù di entrana di vitello. E mi viene in mente un posto a Como, che si chiamava l’Angolo del Silenzio, ma non c’è più. Facevano il risotto dentro la forma di Parmigiano Reggiano, se ci penso mi viene l’acquolina in bocca».
Cosa pensa del movimento che prende le distanze dalla carne e sta convincendo molti chef?
—«C’è posto per tutti. Ciascuno può scegliere. In una grande città ci devono essere ristoranti per carnivori e per chi ama il pesce e le verdure. I miei locali non sono banalmente basati sulla carne, che scegliamo di prima qualità e da allevamenti non intensivi, ma raccontano lo spirito argentino».
La vita del calciatore attivo va d’accordo con la buona cucina o è una sofferenza dietetica?
—«Ho vissuto anch’io il rapporto di odio e amore con il cibo. Cercavo sempre di mangiare sano, facendo sempre più attività sportiva nel caso di qualche trasgressione. Ma una dieta sana non vuole dire cucina mediocre, anzi. La sfida è mangiare bene in modo calibrato».
Tra i grandi chef italiani, per esempio Cracco, Bartolini, Cannavacciuolo, Oldani, c’è qualcuno diventato amico?
—«Conosco tutti. Da Cracco andiamo spesso perché facciamo le cene dell’Uefa. Mangiamo benissimo, ma parliamo più di calcio che di cucina, anche con Carlo».
Per l’impegno nel sociale da 15 anni con la sua Fondazione Pupi, dove ha l’appoggio fondamentale di sua moglie Paula, lei ha ottenuto un Ambrogino d’Oro. La ristorazione può essere d’aiuto in questa benemerita attività?
—«Senz’altro, con cene e feste nei nostri ristoranti raccogliamo fondi da destinare ai più fragili. Focus i bambini in difficoltà, i più deboli. Sono il nostro futuro. Voglio aiutarli a realizzare i loro sogni. Anch’io ne avevo uno e per fortuna ho potuto realizzarlo».
Ha mai parlato con il compatriota Papa Francesco?
—«Sì, sono andato a trovarlo. È una persona alla mano, mi piace molto».
Chi le piacerebbe invitare in un suo ristorante per conoscerlo di persona?
—«Il pilota Lewis Hamilton, mi incanta quello che fa con la Formula Uno, lo inviterei a mangiare un bell’asado».
Che cosa farebbe se con una bacchetta magica potesse migliorare il mondo del calcio?
—«Con la Fondazione Pupi stiamo dando il nostro contributo, ma credo che il potere immenso di questo sport potrebbe fare di più per i giovani. Andrebbero moltiplicati progetti in tutto il mondo per educare le nuove generazioni a un calcio più onesto».
Dove si vede Javier Zanetti tra dieci anni?
—«Sempre qui, a fare il mio lavoro, tra calcio, ristoranti e attività nel sociale. Non vedo perché mai dovrei cambiare prospettiva».
Un consiglio a Milano per diventare sempre più inclusiva e internazionale?
—«Innovare sempre di più. È il suo destino di città locomotiva, di metropoli che non si ferma mai».
Non è un’intervista sul calcio, ma l’Inter?
—«L’Inter per me è come una famiglia. Non abbiamo parlato di carne? Bene, le dirò, facciamo spesso delle grigliate tutti insieme. Ma adesso, dita incrociate».
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