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Nella Liga i classe 2006 segnano nel Barcellona, da noi in Serie C. Perché?
—«Culturalmente non siamo pronti a gestirli. I giocatori fino ai 18 anni non sono pronti da nessuna parte del mondo. Solo che all’estero si coltivano. L’errore è accettato, quasi ricercato, come componente di un percorso di maturazione. Ferguson faceva sempre così. Metteva i ragazzi in condizione di sbagliare, poi li toglieva dal campo e li riproponeva in un altro momento, finché non succedeva più. In Italia siamo troppo attaccati al risultato e al presente, senza ragionare su un termine più lungo. L’investimento più difficile non è di soldi, ma di tempo».
Come ha vissuto le notizie relative al caso delle scommesse?
—«Con immensa tristezza, perché sono un innamorato dello sport e immagino cosa stiano vivendo le persone coinvolte. Sono ragazzi, come lo siamo stati tutti, e hanno avuto comportamenti impropri. Può capitare, l’importante è che sappiano assumersi le responsabilità, voltare pagina e ricavare degli insegnamenti per la vita. Se si tratta di una malattia, può colpire chiunque e bisogna curarla, e come tale non va strumentalizzata».
Ha visto il calcio con tante vesti diverse: come si fa una rivoluzione in tre mosse?
—«Il primo passo sono i giovani e la formazione, l’Italia è sempre stata una scuola rinomata, soprattutto per difensori e centrocampisti. Il secondo sono le strutture, quindi stadi e centri sportivi: sono impianti che non sono pensati per i tifosi, sono poco “user friendly” e anche per questo non costituiscono una fonte di ricavi per tante società. Infine, la presenza delle istituzioni. Spesso si rifiuta di considerare il calcio come una risorsa per il nostro Paese, quando invece è proprio così».
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